mercoledì 4 giugno 2014

Vi racconto il "Maracanazo"

Se guardate lo stemma della nazionale dell'Uruguay vi accorgerete subito che include ben quattro stelle, come l'Italia, pur avendo vinto solo due Mondiali. No, non è frutto di nessuna Calciopoli uruguayana, né di un Guido Rossi ante litteram, molto semplicemente oltre alle due coppe Rimet l'Uruguay considera anche le sue due medaglie d'oro olimpiche. L'Uruguay infatti oltre ad aver vinto (e organizzato) il primo Mondiale della storia ha vinto anche le prime due medaglie olimpiche della storia di questo sport, nel 1924 a Parigi e nel 1928 ad Amsterdam, entrambe prima che venisse organizzato dalla Fifa il primo Mondiale della storia, che si disputò proprio in Uruguay nel 1930. Ma al di là di questa curiosità, la cosa che conta è che questi tre successi su scala planetaria testimoniano la supremazia di questa nazione nella prima metà del secolo scorso. L'Uruguay infatti rimase la nazionale sudamericana più titolata fino al 1962, prima di essere raggiunta e scavalcata dal Brasile e, successivamente, anche dall'Argentina. 

Oggigiorno il calcio sudamericano è dominato da queste due grandi rivali, ma nei primi decenni di vita del "futbol", l'acerrima rivale dell'Argentina era proprio laCeleste, che non di rado aveva la meglio sugli acerrimi avversari, specialmente quando la posta in palio era alta. Oltre alle ricorrenti sfide per la supremazia continentale nel Campeonato Sudamericano (l'odierna Copa America), restano alla storia la finale per l'oro ad Amsterdam 1928 e la finale del Mondiale 1930 giocata allo Stadio Centenario di Montevideo che videro vincente sempre l'Uruguay. Un dominio che durò circa mezzo secolo, e che in teoria si sarebbe dovuto interrompere nel 1950, col passaggio di consegne all'emergente potenza calcistica brasiliana. Ma che il destino, una squadra e un uomo decisero di rimandare.

64 anni fa, come oggi, il Mondiale si disputò in Brasile, e dunque parlando dell'Uruguay il primo pensiero non può non andare a quella partita del 16 luglio 1950, quel Brasile-Uruguay che passerà dalla storia alla leggenda con il nome di "Maracanazo". Ogni campionato del Mondo è speciale a modo suo, ma quello del 1950, non solo per il suo epilogo, fu assolutamente unico per diversi aspetti. Ma andiamo con ordine: dopo quella del 1938 la coppa Rimet non si era più giocata a causa dell'esplosione del secondo conflitto mondiale. Quando la Fifa decise di organizzare il primo torneo dopo la guerra gli stati Europei versavano dunque in condizioni critiche, il che restrinse il cerchio delle candidature al solo Brasile, che peraltro non risparmiò sugli investimenti: nel 1948 partirono i lavori per la costruzione del più grande stadio del mondo, il Maracanà, ultimato neanche due anni dopo. All'epoca il Brasile non aveva vinto mai vinto la Coppa Rimet: l'organizzazione del mondiale del 1950 rappresentava l'occasione del riscatto, la possibilità di portare la nazionale, dopo lunghi anni finalmente competitiva, alla ribalta planetaria. 
La prima stranezza riguarda la formula: Brasile 1950 è ad oggi l'unico Mondiale in cui non si è disputata una finale. Le 16 squadre partecipanti infatti furono divise in 4 gironi, le vincitrici dei quali si sarebbero poi affrontate in un ulteriore girone all'italiana la cui classifica finale avrebbe decretato la squadra campione. Ma siccome un Mondiale senza una finale è una cosa impensabile, il Fato, la Storia o semplicemente il caso si mise di mezzo, venendo a creare una situazione simile a quella della Liga quest'anno: le prime due che si affrontano all'ultima giornata, con due risultati su tre a disposizione della squadra di testa. Una specie di "finale non-finale", che come già detto sarebbe passata alla leggenda rispetto ad altre finali propriamente dette.

Altra peculiarità in fase di organizzazione: la squalifiche che ridussero il numero di partecipanti da 16 a 13. In particolare Wikipedia riporta il caso curioso dell'India, cancellata dal tabellone in quanto i propri giocatori erano soliti giocare a piedi nudi, pratica vietata dal regolamento ufficiale della Fifa. Il risultato di queste squalifiche probabilmente rivelava già la squadra prescelta dal destino: due di queste infatti erano nel girone dell'Uruguay, il quale anziché dover affrontare tre partite come le altre, si giocò agevolmente la qualificazione al girone finale in una partita secca e di certo non proibitiva contro la Bolivia. Poco più di una formalità, un rotondissimo 8-0 che servì quasi più da riscaldamento prima che il mondiale entrasse nella fase più calda. 

E le altre? I padroni di casa del Brasile, favoritissimi annunciati, incontrarono più difficoltà del previsto. Dopo la partita d'esordio in cui triturarono la vittima sacrificale di turno, il Messico, per 4-0, i brasiliani furono fermati sul pareggio 2-2 dalla Svizzera, nell'unica partita che la nazionale ospitante giocò lontano dal Maracanà, al Pacaembu di San Paolo. Probabilmente fu per questo, oltre che per le assenze, a far considerare quel pareggio un incidente di percorso, piuttosto che un vero e proprio campanello d'allarme. Indietro di un punto rispetto alla Jugoslavia capolista, fu proprio contro di loro che si dovettero giocare la qualificazione nell'ultima partita del girone. Che si disputò, neanche a dirlo, al Maracanà, di fronte a 150.000 tifosi, ovviamente tutti brasiliani. Non ci fu nulla da fare per i balcanici, il Brasile trascinato dai suoi campioni e soprattutto dal fattore campo, che negli anni '50 aveva tutt'altra importanza rispetto ad oggi, s'impose per 2-0 con gol del bomber del Vasco Da Gama, che viveva i suoi anni d'oro in quel periodo, Ademir e del fenomeno vero della squadra, Zizinho, idolo d'infanzia di un certo Pelè.

Le grandi favorite degli altri due gironi erano Italia e Inghilterra. E anche qui le sorprese non mancano: furono infatti entrambe eliminate rispettivamente da Svezia e Spagna. In realtà per gli azzurri fu un insuccesso non del tutto inaspettato. Poco più di un anno prima la tragedia di Superga aveva portato via gran parte dei titolari della Nazionale, che giocavano naturalmente nel Grande Torino. Come se non bastasse è ben noto alle cronache che l'onda lunga di quella tragedia spinse i dirigenti della Federazione a far affrontare la trasferta intercontinentale alla squadra in nave anziché in aereo. il risultato fu un viaggio massacrante di tre settimane, in compagnia dei turisti ovviamente, e col dettaglio non trascurabile di non potersi allenare, in quanto la storia ci dice che dopo pochi giorni tutti i palloni erano già finiti in acqua. Nonostante tutto gli azzurri vendettero cara la pelle, finendo un solo punto dietro la prima classificata Svezia, perdendo lo scontro inaugurale proprio contro gli scandinavi per 3-2 cercando il pareggio fino alla fine.

Ben più epocale fu la deludente figura degli inglesi, i maestri del "Football", i quali per la prima volta si erano degnati di partecipare alla Coppa del Mondo, dopo aver snobbato le prime tre edizioni. E il destino non perse tempo per presentargli il conto per quell'affronto, un conto salatissimo. Dopo aver battuto agevolmente il Cile, il programma prevedeva di fare a polpette gli Stati Uniti, prima di giocarsi la qualificazione nello scontro diretto con la Spagna. Ora, se non ci fosse stato quel Brasile-Uruguay, a passare alla storia come la grande "tragedia del calcio" sarebbe stato quell'Inghilterra-Stati Uniti, vinta dagli USA, una squadra amatoriale che aveva dovuto addirittura lasciare alcuni giocatori in patria per questioni di permessi di lavoro, per 1-0 contro gli inventori del calcio, gli dei che per la prima si erano degnati di scendere dall'Olimpo per poi farvi ritorno con le ossa rotte. La storia vuole che addirittura il giorno dopo la sconfitta, in terra d'Albione il risultato fosse stato interpretato in un primo momento come un errore di trasmissione: no, era tutto vero, avevano vinto gli Stati Uniti. Un disastro epocale che fortuna volle, per l'Inghilterra, fosse oscurato solo dalla ancor più clamorosa disfatta del Brasile.

I 4 gironi avevano dunque espresso le proprie vincitrici: Brasile, Svezia, Spagna e Uruguay presero parte al girone finale, che si giocò una settimana dopo la conclusione della prima fase. Fu allora che venne fuori prepotentemente la potenza dei padroni di casa. Uno strapotere fisico e tecnico che si riflette nei risultati delle prime due partite: Brasile-Svezia 7-1, Brasile-Spagna 6-1. La bellezza di 13 gol fatti contro 2 subiti. Le poche immagini che si trovano in rete ci raccontano di una squadra che andava a un'altra marcia rispetto agli avversari, tocchi smarcanti, conclusioni imparabili di rara precisione e potenza, giocate d'alta scuola. Gli attaccanti brasiliani affondavano come un coltello nel burro nelle difese avversarie, prendendoli sempre alla sprovvista con improvvisi inserimenti che lasciavano gli esterrefatti difensori immobili come statue. Di contro l'Uruguay faticò non poco. Se da un lato la fortuna del sorteggio li aveva aiutati a giungere alla fase finale più riposati, la Celeste si trovò all'improvviso a dover fare sul serio. Andata in vantaggio con un gol dell'imprendibile ala Alcides Ghiggia, fu rimontata dalla Spagna nella prima partita del girone finale, per poi pareggiare grazie a un gol del capitano Obdulio Varela, di cui avremo modo di parlare in seguito. Battendo allo scadere la Svezia grazie a un'uscita discutibile del portiere scandinavo, riuscì in qualche modo a rimanere a un solo punto dal Brasile prima dell'ultima giornata, rimandandone la festa. Di qualche giorno? No, di otto anni.

L'ultima partita del Mondiale del 1950 si giocò il 16 di luglio, a Rio de Janeiro. Lo stadio fu, neanche a dirlo, il Maracanà, dove il Brasile fino ad allora aveva sempre vinto, che per l'occasione ospitò 200.000 spettatori, il record tutt'ora imbattuto per una partita di calcio. Purtroppo non tutti tornarono a casa. Come detto era l'ultima partita del girone, non una finale, ma le contingenze l'avevano resa tale, praticamente. Il Brasile guidava la classifica con 4 punti, seguiva l'Uruguay con 3. Alla corazzata brasiliana bastava un pareggio per diventare campione e scatenare la festa tanto agognata e a lungo covata. Il Brasile era un calderone che ribolliva d'attesa, al punto che la gioia non potè che traboccare dal coperchio nei giorni precedenti la partita. Per l'occasione fu organizzato un vero e proprio carnevale, con i carri che sfilarono già dal mattino. Una quantità spropositata di magliette celebrative era già stata venduta. Per le radio di Rio imperversavano le canzoni che magnificavano la gloria della nazionale che di lì a poco avrebbe dovuto vincere finalmente il suo primo titolo mondiale. Un paese che entrava nell'era moderna, e voleva mostrarsi al mondo. 

L'Uruguay invece aveva pochi calcoli da fare, doveva vincere. Ma la vittoria era al di là di ogni previsione, persino per i dirigenti della Federazione uruguayana, i quali, si dice, chiesero alla squadra di finire alla grande quel Mondiale... cercando di non perdere più di 3-0! In realtà quell'Uruguay, e oggi lo sappiamo, era una squadra ben più forte di quanto si pensasse, annoverava fior fior di campioni. L'asse portante era formato dai giocatori del Peñarol di Montevideo, il club più titolato d'Uruguay, che nel '50 si apprestava ad aprire uno dei tanti cicli vincenti della sua storia. Lo zoccolo duro comprendeva i migliori giocatori del campionato, a cominciare dal portiere Maspoli, che sarebbe diventato una leggenda dei gialloneri, vincendo tutto sia da giocatore che da allenatore. Il terzino Andrade era il nipote dello storico capitano che aveva guidato l'Uruguay al trionfo nelle Olimpiadi e nel mondiale del 1930. Le due punte di diamante della squadra erano il regista Schiaffino, un fenomeno dotato di piedi estremamente educati e, soprattutto, di una visione di gioco fuori dal comune, che lo porteranno a diventare uno dei più forti giocatori della storia del calcio, e l'ala Ghiggia, rapidità al servizio della tecnica, col vizio del gol e inarrestabile nell'uno contro uno grazie ad un repertorio di finte tanto vasto quanto efficace, che dopo il Mondiale sbarcarono nel campionato italiano, entrambi nelle fila del Milan e della Roma, con alterne fortune. Insomma non proprio il classico agnello sacrificale, eppure tanta era la convinzione nella forza del Brasile che tutti davano per inevitabile il trionfo dei carioca.

Tutti tranne uno, e si da il caso che quell'uno fosse il capitano dell'Uruguay, "El negro Jefe" Obdulio Varela. Un personaggio che meriterebbe un capitolo a parte. Anche lui una leggenda del Peñarol, guidò lo sciopero dei calciatori uruguayani che durò dal settembre 1948 al maggio 1949, i quali chiedevano maggiori garanzie e libertà contrattuali da parte dei club (che tra le altre cose all'epoca potevano rescindere i contratti unilateralmente, o trasferire i propri calciatori coercitivamente, senza che questi ottenessero nulla. Altro che Bosman...). Rinunciò una volta a metà del premio elargitogli dal Peñarol dopo la vittoria del campionato, che era doppio rispetto a quello dei compagni essendo il capitano, in quanto riteneva che siccome giocava esattamente come gli altri gli spettasse lo stesso premio dei suoi compagni, non un peso di più. In una partita, dopo un duro contrasto di un avversario andò a dire all'arbitro: "Se uno dei nostri fa un fallo del genere lo espella per cortesia. Un giocatore che entra così non è degno di stare sul campo." Si ritirò in forte dissenso con la società per non indossare una maglia con lo sponsor.
Questo e molto altro era il numero 5 dell'Uruguay, che da solo cambiò le sorti del Mondiale del 1950. Lo fece grazie a una grande intuizione: Varela fu l'unico a capire che sul piano tecnico le due squadre potevano benissimo affrontarsi alla pari, ma la vera partita si giocava su un altro piano, quello psicologico. L'Uruguay aveva il vantaggio di essersi goduto il ritiro in piena tranquillità, ospitato nel campo del Palmeiras, la squadra degli immigrati italiani, durante il ritiro, mentre i giocatori brasiliani non ebbero un momento di pace a causa della passione esuberante del loro popolo e dal viavai di personaggi politici, ansiosi di raccattare consensi facendosi vedere in pubblico in compagnia dei campioni annunciati. Sull'altro piatto della bilancia però pesava un fattore molto più importante: il Maracanà. Il Brasile lì aveva sempre vinto, spinto dalla folla di 150.000 tifosi in visibilio. E all'epoca come detto il fattore campo contava molto di più, non solo in termini di "bolgia". Se avete presente come la Juventus viene accolta di volta in volta a Napoli, Firenze, Bologna o Catania, potete immaginarvi a cosa andavano incontro gli avversari che dovevano affrontare "gli eletti" del popolo brasiliano, non solo arrivando allo stadio, ma anche all'interno di esso, considerando anche che i mezzi di cui disponevano le forze dell'ordine, che a volte chiudevano non uno, ma entrambi gli occhi, erano decisamente inferiori rispetto a quelli di adesso. Era prassi ad esempio che durante il riscaldamento la squadra che affrontava il Brasile dovesse fare attenzione ai petardi che gli venivano lanciati addosso dagli spalti.

In sintesi quel 16 luglio 1950 la Celeste non affrontava semplicemente una squadra, ma giocava contro un intero popolo. Valera questo lo sapeva, e la leggenda vuole che prima di scendere in campo vietò categoricamente ai compagni visibilmente impauriti di alzare lo sguardo verso le tribune. Finché si giocava 11 contro 11 c'era sempre speranza, ma se la partita fosse diventata 11 contro 200.000 non ci sarebbe stata alcuna via di scampo. E di darla vinta a quei dirigenti, suoi compatrioti che li avevano dati per spacciati prima ancora di giocare, "el Jefe" non ne aveva alcuna intenzione. I frutti di quella intuizione cominciarono a vedersi già nel primo tempo. L'Uruguay si difese con ordine dalla prevedibile foga dei brasiliani ansiosi di far esplodere la gioia della marea degli spettatori, non concedendo spazi agli inserimenti dei brasiliani e senza disdegnare il gioco duro, ma senza mai eccedere nella scorrettezza. Con un capitano come Obdulio Varela non te lo puoi permettere. Il primo tempo terminò a reti bianche, addirittura fu l'Uruguay ad andare più vicino al vantaggio colpendo il palo sul finire della prima frazione. 
Il Mondiale del 1950 si decise negli ultimi 45 minuti. Per la precisione al secondo minuto del secondo tempo, ma non per via del gol di Friaça, che esattamente dopo 2 minuti dall'inizio della ripresa piazzò un diagonale preciso che si insaccò nell'angolo basso, alla destra di un Maspoli non incolpevole in quella circostanza. A deciderlo fu invece il numero 5, il capitano, neanche a dirlo, Obdulio Varela che, dopo aver raccolto il pallone da in fondo alla rete e averlo lentamente lanciato verso il centrocampo, si diresse verso l'arbitro, per protestare. Una mossa da piangina potremmo pensare oggi, in realtà una mossa geniale, con cui diede scacco matto al Brasile. Le cronache riportano che, vedendo il guardalinee alzare ed abbassare velocissimamente la bandierina, a Varela venne in mente di chiedere un fuorigioco che egli stesso sapeva bene non esserci. E badate bene, non per cercare un vantaggio illecito, che peraltro non arrivò. Lo scopo di quella protesta era perdere tempo. 
Ora può sembrare strano che la squadra in svantaggio, quella che deve rimontare, perda tempo con proteste inutili. Ma in quella circostanza invece, una mossa che può sembrare folle, fu in realtà la mossa vincente. La ratio è ben spiegata in questa interpretazione di Toni Servillo , che recita un breve monologo nella parte di Varela stesso. In sintesi quello che voleva ottenere "el Jefe"era far "raffreddare" gli avversari, spezzargli il ritmo in modo da non lasciare che, sull'onda dell'entusiasmo per il vantaggio, li travolgessero. Lasciar ripartire la partita immediatamente voleva dire spalancare il cancello all'invasione dei brasiliani, mentre quel cancello finora gli uruguayani erano riusciti a tenerlo chiuso, nonostante quel gol avesse aperto una piccola breccia. E funzionò. Il Brasile si riversò nervosamente in attacco ma senza riuscire a giungere al raddoppio, mentre l'Uruguay riuscì a gestire senza scomporsi il momento, lasciando sfogare la bestia prima di ricacciarla indietro e richiuderla in gabbia. 

Il resto venne di conseguenza. Col passare dei minuti quella che doveva essere l'arma in più, la spinta del pubblico, si rivelò invece un boomerang. L'aspettativa del pubblico non fece altro che innervosire ancor di più i giocatori in maglia bianca, che nonostante fossero in vantaggio sentivano la pressione di dover stravincere per poter regalare al proprio popolo, cui la semplice vittoria non bastava, il trionfo che si aspettavano. Di contro gli uruguayani andavano via via acquistando confidenza, e quando fu il momento colpirono con l'unica arma che avevano a disposizione: il contropiede. Alcides Ghiggia si dice avesse ricevuto una bella strigliata dal suo capitano negli spogliatoi, dopo che nei primi 45 minuti era stato un'ectoplasma in campo. Che sia vero o no, non lo sappiamo; quel che è certo è che il suo zampino c'è in entrambi i gol con cui l'Uruguay ribaltò le sorti di quella partita, di quel Mondiale, di quella festa. Al ventesimo della ripresa si liberò del proprio marcatore scartando sulla destra, prima di servire Schiaffino che si era intanto portato in avanti. Di fronte a lui c'era un altro difensore, pronto a contrastarlo, ma Schiaffino lo prese sul tempo, calciando al volo col piede destro fatato che si ritrovava, e mandò il pallone all'incrocio dei pali dove il portiere Barbosa non potè arrivare. 1-1, il Brasile era ancora campione ma tra gli spettatori, oltre che tra i giocatori, cominciava a serpeggiare l'insicurezza, che ben presto divenne paura. 

"Solo tre persone hanno zittito il Maracanà: Frank Sinatra, il papa Giovanni Paolo II ed io". Con queste parole Alcides Ghiggia descrisse magistralmente quello che avvenne 13 minuti dopo. L'ala numero 7 prese palla e dopo una serie di finte lasciò sul posto il marcatore, bruciandolo in velocità sullo scatto. Qui avvenne l'imponderabile. Non si sa se abbia fatto apposta o no, Maspoli in un'intervista disse che era il modo tipico di calciare di Ghiggia, fatto sta che dalle immagini si vede chiaramente una zolla alzarsi nella corsa e Ghiggia che, perdendo il passo, calcia il pallone prendendolo di collo esterno, verso il primo palo. La sfera fece un paio di rimbalzi prima di infilarsi beffarda sul palo del portiere, preso alla sprovvista giacché da quella posizione defilata si aspettava un cross in mezzo invece della conclusione. 2-1 per l'Uruguay e sul Maracanà calò il silenzio, un silenzio irreale, che più di qualsiasi parola esprimeva la delusione, la rabbia, la sorpresa di quella tragedia totalmente inaspettata. Come se quelle 200.000 persone si fossero svegliate tutte insieme da un sogno, per scoprire quanto la realtà fosse amara. E purtroppo al fischio finale ci fu chi tanta amarezza non fu in grado di sopportarla. Decine di persone persero la vita colte da infarto, altre si gettarono dalla disperazione giù dalle gradinate dello stadio. Molti di più furono coloro che persero tutto per aver scommesso sulla vittoria del Brasile.

Il carnevale, le magliette, persino i giornali del giorno prima celebravano già i futuri campioni. E oggi sappiamo che nel calcio queste cose si pagano care. La miglior testimonianza dell'impreparazione con cui venne accolta la vittoria dell'Uruguay, che veniva considerata fuori da qualsiasi logica, fu la "cerimonia" della premiazione. Uso le virgolette perché, per l'appunto, una cerimonia non ci fu. Le autorità brasiliane lasciarono lo stadio nello sgomento, mentre Jules Rimet dovette entrare in campo da solo per consegnare, tra le lacrime di gioia degli uruguayani e quelle di disperazione dei brasiliani, la coppa direttamente in mano a Varela, mentre tutto il Maracanà assisteva ammutolito. Non era stato nemmeno preparato un discorso per celebrare la vittoria della Celeste, mentre quello scritto in portoghese che avrebbe dovuto incoronare il Brasile campione del Mondo fu da mandare al macero. Rimet stesso, in una sola frase, sintetizzò perfettamente la situazione: "Tutto era stato previsto, tranne la vittoria dell'Uruguay". Errore non da poco per il quale il destino, anche in questo caso, presentò subito il conto più salato che si potesse immaginare. Persino troppo salato. Forse per questo, alcuni anni dopo, il Fato decise di risarcire il Brasile, facendo nascere una stella che in poco tempo avrebbe guidato la nazionale, che da quel 16 maggio 1950 abbandonò la maglietta bianca per quella verdeoro che utilizza ancora oggi, a diventare la più vincente di tutti i tempi: Edson Arante Do Nascimiento, al secolo Pelè. 

Ben peggiore fu il destino del portiere di quel Brasile, Moacir Barbosa, che diventò per una nazione intera il capro espiatorio di quella disfatta storica, e la cui tragedia umana è raccontata in un bellissimo libro di Darwin Pastorin. In questa sede ricordiamo solo un episodio, raccontato dallo stesso Barbosa in un'intervista : oltre trent'anni dopo il Maracanazo, negli anni '80, in un negozio un'anziana signora lo riconobbe e, indicandolo, disse al nipote: "Guarda, quello e l'uomo che ha fatto piangere il Brasile". Una sorte ingiusta di cui però non ci possiamo occupare in questa sede. Qui, di quella partita in cui a passare alla storia furono soprattutto gli sconfitti, celebriamo invece i vincitori, l'Uruguay di Obdulio Varela. 

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